II

I sonetti minori

Fra la prima e la seconda ode (primavera 1800 e primavera 1802 in cui la seconda ebbe inizio) noi possiamo inserire i sette sonetti minori (messo già da parte il sonetto del 1798 di soggetto politico), mentre i quattro sonetti maggiori vanno calcolati nello stesso periodo di elaborazione della grande ode fra la primavera del 1802 e l’aprile 1803.

Si tratta di una collocazione approssimativa data la mancanza di precise notizie sulla composizione dei singoli sonetti e dato il metodo foscoliano di rielaborazione e di utilizzazione della propria opera precedente con un vero gusto a volte di contaminazioni cronologiche già notato nei riguardi delle redazioni dell’Ortis. E come fidarsi di datazioni precise (anno, mese e giorno!) come quelle ad esempio del Bassi, quando ben sappiamo che un sonetto mescola elementi del periodo roncioniano con altri riferentisi all’amore per l’ignota Laura? Elementi cronologici e geografici sono stati spesso adattati ad altri tempi e ad altre situazioni biografiche e spesso ci troviamo di fronte a strati sovrapposti per distinguere i quali ci mancano dati sicuri. Rifiutando le ipotesi di datazioni puntuali quanto mai ingannevoli e ricordando che nell’irrequieto lavoro foscoliano di questi anni ortisiani contaminazioni e riprese[1] sono frequenti e inducono ad una salutare cautela, si può determinare una zona cronologica (1800-1801) entro cui il Foscolo scrisse o rielaborò i sette sonetti minori in una generale disposizione di liricizzazione drammatica, di movimento concentrato (con poli estremi abbandoni concitati e momenti di raccolta epigrafica) sulla base di una generale tensione autobiografica, di cui il sonetto autoritratto è l’esponente piú vistoso e indicativo.

Sono poesie dominate da una poetica tragico-lirica che nella forma essenziale del sonetto comprime la ricca materia sentimentale di Jacopo-Ugo prima del suo pieno sfogo nell’Ortis milanese e nella rielaborazione delle «Quarantacinque lettere», a cui sono particolarmente legati i sonetti amorosi.

I sonetti amorosi hanno di caratteristico la presenza predominante del paesaggio, risultante in parte letterariamente da una tradizione sonettistica petrarchesca e petrarchistica e dalla tendenza preromantica confluita già nelle «Quarantacinque lettere» e in parte proprio da un’impostazione essenziale del Foscolo ortisiano che riversa il suo lirismo in una visione della natura in simpatia con il protagonista («gemesse con me la natura!») e che nell’Ortis maggiore accompagnerà lo svolgersi del dramma, le sue gradazioni dell’idillio tenero del principio, percorso da lampi forieri della tempesta, allo scatenarsi di questa con le sue tinte cupe e macabre, fino al rasserenamento delle pagine di calma contemplazione della morte.

In questi sonetti il paesaggio si svolge dall’esile quadretto di un «solitario rivo» ove languidamente l’Amore conduce ogni notte il poeta, ad una scena complessa notturna e lunare fra un bosco e il mare, ad una visione di paesaggi in movimento fra un litorale roccioso e boschi montani. Paesaggi preromantici e romantici disposti come nel passaggio fra «Quarantacinque lettere» e secondo Ortis o dentro a questi fra prima e seconda parte.

Naturalmente i tre sonetti amorosi piú legati fra di loro (l’esigenza di uno sfondo paesistico e il tema amoroso li lega anche all’VIII piú maturo, piú nuovo) e legati al passaggio fra «Quarantacinque lettere» e Ortis milanese, nella direzione amorosa che meglio lega i due Ortis e piú fortemente rende presenti nel secondo le tracce del primo, sono legati ai sonetti piú direttamente autobiografici (che interpretano e appoggiano con maggior vigore l’elemento piú caratteristico e profondo – la passione incentrata su una personalità tormentata e romantica – dell’Ortis) dalla ricerca comune di movimento e di essenzialità, dalle aperture ex abrupto, corrispondenti all’esplosione di una maturazione interna e drammatica, dal bisogno di concentrazione della propria forza in margine all’espressione di prosa poetica ortisiana già avvertita nei suoi limiti, ma effettivamente ampliata solo nei sonetti maggiori e nella loro disposizione piú intima e sintetica.

Ed il linguaggio, il lessico foscoliano ortisiano-sonettistico anch’esso trasformato e superato nella maggiore limpidezza dei grandi sonetti e dell’ode maggiore (con dietro l’esercizio essenziale della prima ode fra bello stile e freschezza gioiosa della parola) lega chiaramente in un’unica fase i sonetti 1800-1801, anche se difficile è stabilire la precisa relazione di debito o di credito con l’Ortis, quando non risultino chiare riprese e accomodamenti delle «Quarantacinque lettere».

Cosí alle «Quarantacinque lettere» si legano soprattutto i sonetti amorosi anche negli stessi spunti di paesaggio intensificati piú romanticamente in coincidenza con la revisione milanese: il paesaggio nel V risente del paesaggio della storia di Lauretta (XXX, ed. Prose I, p. 119) e lo stesso paesaggio “rupestre” del VI ricorda la lettera XXXV (p. 124), con vento, selve, rupi, «natura attonita e spaventata» e precise indicazioni di immagini e di linguaggio «vo salendo... e stò... là ritto... anelante». Mentre la situazione disperata del II richiama la pagina 125 in cui ricorre l’abbozzo del verso 2 «non altro mi avanza fuorché il pianto e la morte...». E per il linguaggio dei sonetti mentre già certe parole tipiche affiorano con difficoltà e rarità nelle «Quarantacinque lettere» (come deliri, p. 149), certi versi nascono da echi letterari preromantici dentro le «Quarantacinque lettere», come il verso del XII «figlio infelice e disperato amante» che pare una ripresa del verso dell’Ossian riportato a p. 122 con «infelice amante» e di quello del Gray (p. 126) con «disperato amante». E il cuore «che vuole sempre occuparsi» (p. 100), «agitato» (p. 96), «nel mondo della vita, agitato dalle passioni» (p. 97), sono preannunci del predominio e dell’accordo di forme movimentate intorno al tema essenziale «cuore».

Ma se in alcuni casi (specie nei tre amorosi e in quelli che nell’edizione 1802 erano i due primi[2]) queste tracce fan sentire meglio il legame di alcuni sonetti, magari attraverso una fase di espressione o di abbozzo, con gli anni precedenti (secondo l’ipotesi del Carrer) piú forte è il legame con l’Ortis milanese nel cui seno o alla cui base immediata son nati i sette sonetti mentre al di sopra della sua piena espressione sono nati gli ultimi quattro.

I Sonetti che consideriamo (fine 1800-fine 1801) sono sulle direzioni essenziali della trasformazione dell’Ortis dalle «Quarantacinque lettere» all’Ortis milanese, anche se manca il motivo nazionalromantico ed i riferimenti alle vicende politico-militari vissute dall’autore (VI, II) sono in funzione di atteggiamenti disperati e negativi, vivono in quanto causa di allontanamento dall’amore o dalla poesia, in quanto deprimenti condizioni di crisi di un «reo tempo». Ma, su questo sfondo («empia licenza e Marte» e «l’errare dei campi mobili») non precisato in motivi di dramma patriottico, sono soprattutto efficaci il motivo dell’autoritratto movimentato della prepotenza invincibile della passione, del predomino del «cuore», e il motivo della violenza e dell’estasi amorosa di fronte ai quali scompare il «desiderio di patria», non il «furor di gloria» e l’intensa vita di affetti foscoliani («carità di figlio»).

Su questa direzione i sonetti rappresentano un’intensificazione essenziale di motivi delle «Quarantacinque lettere» e un rinnovamento verso temi, parole che nelle «Quarantacinque lettere» apparivano piú scialbe e che poi, attraverso la concentrazione lirica dei sonetti, risultano centrali nell’Ortis milanese.

Anzitutto l’immagine composita di ideale e di biografia della donna (che può giungere nel sonetto IV a toccare il ritratto della Fagnani Arese che negli altri integra nella immagine prevalente della Roncioni ricordi di Teresa Monti e sin della giovanile Laura) che di fronte alle «Quarantacinque lettere» appare circondata da un’aura mistica e «fatale» (parola che qui entra in coincidenza con il secondo Ortis, Prose, I, p. 259, p. 297, ecc.).

E d’altra parte il «furore», «l’ira», la «guerra» interiore, «gli affannosi deliri» (Prose, II, p. 1), l’ondeggiamento fra un’esaltazione del proprio animo superiore (le «mie pazzie» contro la «loro saviezza», Prose, II, p. 20), del proprio autoritratto («indole schietta, salda, leale», Prose, I, p. 278, nel suo contrasto con il mondo), e la condanna della propria malattia spirituale («la mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guasto qui nel profondo», Prose, II, p. 5 – in coincidenza con il verso 7 del II), trovano nei sonetti (specie nei tre non amorosi) come dei punti di raccolta essenziali ed esplosivi intorno a cui meglio si precisarono poeticamente motivi essenziali svolti poi nella prosa poetica dell’Ortis, mentre i motivi piú profondi della morte, della sepoltura, dell’esilio, del contrasto tra vita e morte, della fatale necessità delle cose fermenteranno piú a lungo nell’Ortis e nel Carteggio per sistemarsi liricamente nei sonetti maggiori, piú in alto e piú liberamente da questo assiduo contatto con lo sfogo e con la costruzione ortisiani. È il momento romantico piú esteriore, di Jacopo, personaggio romantico, quello che anima i primi sonetti e ne fa punto di raccolta dello sfogo ortisiano durante la sua costruzione drammatica e impetuosa in una direzione di poetica drammatico-lirica. Non fogli di diario lirico (e infatti i dati biografici sono ricordi, elementi disponibili per la nostalgia e la volontà costruttiva del poeta, come le Alpi e le onde frementi del sonetto VI che potevano anche esser richiamate nel viaggio a La Spezia nel 1801, ma che certo risentono del periodo ligure-nizzardo e confluirono nel 1801 nelle lettere del viaggio ai confini d’Italia dell’Ortis milanese, Prose, II, pp. 22-23), ma “poesia” in un loro valore organico e un legame di “poetica” e insieme nuclei di raccolta di motivi nel vasto movimento spirituale poetico della trasparenza fra Ortis primo e secondo. E, d’altra parte, sulle direzioni essenziali drammatiche dell’Ortis, sul raddrizzamento drammatico di elegia e di idillio ben avvertibile nei sonetti amorosi, i primi sonetti mostrano anche contatti con il Carteggio Arese nella sua prima fase amorosa ed agitata (1801), mentre le punte piú alte di quelle lettere (bellezza come consolazione, nostalgia preventiva, senso alto della morte) sono anch’esse legate all’espressione piú intima dei grandi sonetti.

Vedremo poi in occasione dell’ode maggiore la importanza del Carteggio Arese che sostiene anche il sonetto X e in genere i grandi sonetti nel suo filone di meditazione e di consolazione della bellezza, ma anche nei riguardi dei primi sonetti la prima parte del Carteggio mantiene nel suo intreccio con l’Ortis milanese il carattere di interdipendenza con l’espressione lirica specie in direzione dell’autoritratto.

Incontro di immagini della bellezza di Antonietta, «creatura celeste», «divina» con i suoi «grandi occhi neri divini» (Epistolario, ed. Nazionale, I, p. 216) e del finale del IV sonetto, rinforzo e correzione dei motivi della invocazione della morte (p. 227), del delirio dell’amore («gli amanti delirano come gli infermi», p. 250), del languore e del sopore dei momenti in cui l’amore tace («tutto il resto geme nel languore e nell’indolenza», p. 305, per l’inizio del V e per il II), del miraggio ora deprecato ora invocato della gloria («Io amo la gloria, io ne sento spesso il furore... Conviene insomma ch’io studi... poiché non si può diventar grandi con i fatti tentiamolo con gli scritti», p. 236): riferimenti che rafforzano il senso non di diario lirico, ma di sviluppo lirico nel pieno di un tormento espressivo drammatico e romanzesco («romanzetto ambulante» è chiamato il Foscolo dall’Arese ed egli conferma «la mia vita è un continuo romanzo», p. 295) in un periodo quanto mai turgido di esperienze e di bisogni insieme vitali ed artistici.

E sul motivo romanticissimo del «cuore» («figlio della natura», p. 271) leale, alto («la parte migliore ch’io possegga», p. 253, «in tutte le mie follie e in tutti gli errori della mia gioventú, il mio cuore non può essere accusato né di malignità né di bassezza», p. 255), motivo di orgoglio («ama in me ciò ch’io ho di migliore, e che non ha che fare con la bellezza: il mio cuore, il mio cuore... sí il mio cuore...», p. 215) e immagine di generosa disponibilità ai sentimenti e al dolore («piagarmi sempre nel cuore», p. 252), il Carteggio punta, fra l’altro, su di un autoritratto a cui non manca anche una certa frivolezza vanitosa di accarezzamento della «magica e malinconica persona» (p. 287) nel gusto di ritratti dell’epoca e nel vagheggiamento costante di un Werther-Jacopo (a cui si contrappose Alberto-Odoardo a cui è paragonato il marito dell’Antonietta) che si complica con il mondano desiderio di apparire interessante ed eccezionale (nel Carteggio la esagerazione e la messa in posa è avvertita dallo stesso Foscolo che mette le mani avanti assicurando la sincerità dei suoi dolori). Il sonetto autoritratto nacque certo in questo momento (fine 1801) e fra angoscia, pianto e malinconia, sulla direzione del «perseguitato» (pp. 276, 308-309, 333) dalla fortuna si delinea il motivo del «mesto» (p. 374), dell’ira («questa ira furia dominatrice che mi perseguita»), del contrasto interno («sempre in guerra con se stesso», p. 268), dell’«eccessiva fierezza», dell’«anima sublime e sdegnosa» (p. 211) a cui solo la morte, la sepoltura darà riposo «unico rifugio agli infelici» (p. 223).

I sette sonetti minori rappresentano cosí (nei loro chiari legami sia di ripresa e di trasformazione drammatica di motivi idillico-elegiaci delle «Quarantacinque lettere» sia di anticipazione e di contemporaneità rispetto all’Ortis milanese e alla prima parte del Carteggio Arese) un tentativo del Foscolo di concentrare poeticamente mediante una poetica tragico-lirica sentimenti essenziali di quel periodo di passaggio fra l’Ortis bolognese e Ortis milanese (nel suo intreccio con la prima parte del Carteggio Arese). Tentativo che, chiaro nella sua volontà e nelle linee della costruzione poetica, risente spesso delle remore (simili a quelle avvertite nell’Ortis milanese) rappresentate dallo stadio lirico-elegiaco e da tipiche incertezze di ispirazione in un periodo ancora piú ricco che sicuro. Donde quegli ondeggiamenti fra languore e dramma, fra tensione e abbandono, oppure l’eccesso di drammaticità per compensare tentazioni o residui di idillio-elegiaco. E quindi risultati poetici incerti, anche se interessanti nella formazione del linguaggio poetico foscoliano e nel tipico accento drammatico-lirico di questo periodo che il Foscolo dei sonetti maggiori saprà superare ed utilizzare per risultati sicuri e maturi, piú libero dagli squilibri e dalla complessità del periodo ortisiano, piú capace di rivedere il suo dramma con maggiore distacco lirico, con minore urgenza di sfogo e di efficacia drammatica.

* * *

Manterrei dunque come larga base cronologica (con le cautele esposte e l’interesse rivolto piú alle “fasi” poetiche che alle precise coincidenze di fatto e poesia) la zona fiorentino-milanese 1800-1801 fra il periodo precedente immediatamente la ripresa dell’Ortis e la nuova redazione della prima parte e la coincidenza fra la stesura della seconda parte e l’inizio del Carteggio Arese (nonché con i primi frammenti del Romanzo autobiografico nel suo carattere di opera fallita e utilizzato parte nell’Ortis, parte nella seconda ode, parte nella formazione della figura di Didimo Chierico, a proposito della quale riparleremo, del Sesto tomo dell’io), quando il bisogno di conclusione e di apertura del proprio autoritratto in movimento raggiunse la sua maggiore complessità preparando la relativa calma da cui sorsero i sonetti maggiori, la seconda ode e l’opera di poetica, il Commento alla Chioma di Berenice.

In questa zona aperta verso il rifluire di esperienze e di immagini degli anni errabondi della guerra rivoluzionaria, collocherei primi i due sonetti (II e XII), e insieme a loro gli amorosi nell’ordine inverso dell’edizione 1802: VII, VI, V, IV, pur con la supposizione di archetipi precedenti per il VII, V e la certezza di tale contaminazione per il VI. Piú vicini al 1802 il V, con accenni che mi sembrano legati ormai alle prime pagine del Carteggio Arese, e il IV che rivede da lontano e con maturità poetica maggiore l’amore fiorentino fiorito agli inizi del 1801. Infine collocherei l’VIII del 1802 (VII del 1803) che riprende motivi dei primi due e appare come la base o addirittura la traduzione poetica della preoccupazione di autoritratto precisato e particolareggiato che troviamo nelle lettere (204 e 249 del Carteggio) in cui il Foscolo si indugia a vagheggiare ritratti suoi e dell’amante.

L’aprile 1802 stacca decisamente la zona dei sette sonetti da quella dei nuovi sonetti e della grande ode: in una lettera al Monti del 29 aprile 1802 il Foscolo scrive: «Io vo ondeggiando dopo un anno che le vergini muse mi aveano lasciato». Si tenga naturalmente un conto molto approssimativo di quell’«anno» che può avere anche un gruppo di sei-sette mesi, ma certamente uno spazio vuoto vi fu e i sette sonetti non superarono l’anno 1801, la fase iniziale della seconda parte dell’Ortis e del Carteggio Arese.

I due sonetti che possiamo considerare precedenti alla ripresa dell’Ortis e impegnati soprattutto in un autoritratto movimentato con forti echi preromantici (II e XII della raccolta definitiva, I e II della 1802) rappresentano bene i caratteri di questa fase sonettistica, che sulle ragioni poetiche piú essenziali è mossa anche da una volontà stilistica di originalità persino troppo evidente e polemica di fronte al sonettismo blando, petrarchistico tipo «Anno Poetico» (piú vicino semmai ai punti piú arcaici dei sonetti amorosi e a qualche abbandono dei due primi) e di fronte allo stesso sonettismo alfieriano (che pur prestava al Foscolo moduli di scavo sentimentale e di espressione brusca e decisa con forme di linguaggio nuovo fra realistico ed antiquato estremamente efficace) di cui il Foscolo avvertí sin da allora i limiti caratteristici di possibile prosasticità, di drammaticità non risolta liricamente.

La presentazione lirica del proprio animo in tensione, del proprio dramma di scontentezza, di rimpianto, di crisi, legato ad uno sfondo piú vasto di dramma generale (il motivo comune all’Ortis), è in questi sonetti la condizione di uno sviluppo dell’organismo poetico in funzione di gesto animato e rappreso, fra abbandono fremente e dominio, fra tumulto di sentimenti e di linee e fermezza di epigrafe, di definizione. Dopo l’abbandono elegiaco e il tumulto drammatico del Tieste, prima della ripresa drammatica di un primo tentativo ortistiano inclinato all’abbandono elegiaco fra confessione, racconto, descrizione, questi sonetti rappresentano (mentre la prima ode ancora isolata si chiude in una esperienza vitale e letteraria tenuta da parte nel nuovo insorgere romantico di volontà tragico-lirica) il bisogno e la volontà foscoliana di essenzializzare la propria esperienza sentimentale e poetica senza perdere nulla di vitale intensificandone la drammaticità, il movimento, la sostanziale e sottile eloquenza, e insieme, proprio nella misura del sonetto e nel particolare suo uso, rendendola concisa ed energicamente compressa, tentando una singolare unione veramente foscoliana di continuità e di energica spezzatura di forza epigrafica e di abbondanza musicale in organismi dinamici, ma non sfumati secondo una tendenza preromantica e romantica né squilibrati, disarmonici come spesso avviene nella lirica alfieriana. Fra gli inizi violenti, quasi espressione intensa di una volontà di azione o di costatazione disperata e piú che poetica (primo segno della inconfondibile originalità foscoliana), e i finali che epigrafici e contenuti vibrano però dello stesso impeto e della stessa drammaticità in un gesto di eloquenza rappresa (donde quel tanto di declamabile[3] che si addice a questi primi sonetti), il sonetto vive in forme incalzanti (come nel I: «Perché... Che se...» e nel II «Che se... or meglio vivi... Che stai?...») esortative e pure non prive di una certa onda eloquente-musicale che rispecchia il procedimento intimo di questi autoritratti in movimento carichi di volontà e di scontentezza fra elegiaci ed eroici. In realtà in questi primi sonetti (e in tutti quelli della serie 1802) la sicura radice del loro atteggiamento intimo e della loro poetica (momento essenziale primo del nuovo Ortis e in accompagnamento allo sfogo e alla costruzione della prosa poetica) è intrecciata con residui di gusto precedente e con pericolosi riflessi di atteggiamenti esteriori ineliminabili da questi sonetti che nella loro volontà di essenzialità e di integralità, di ricchezza, di sincerità e di linea rappresentativa celano e rivelano una tensione impura da un punto di vista poetico: volizione, “egotismo”, e persino ombra di posa cosí chiara poi nel sonetto autoritratto perché piú particolareggiato e fermo.

È dunque evidente che di fronte a questi sonetti il giudizio di valore – quando sfugga alla suggestione del Foscolo maggiore e della sua personalità geniale – mentre deve tener conto di questo particolare atteggiamento che ha largo margine e confusione di praticità, e sentire l’importanza vivificante di questo impeto fondamentale (che i vari Cesarotti e Bettinelli non capivano), non può non essere limitativo graduando fortemente, in un artista che è proceduto per svolgimenti lenti e per avvolgimenti e riprese, la conquista della poesia entro un assiduo sviluppo di forza personale e di sfogo generale, di arricchimento con pericolo di abbandono pratico e di dominio, di irrequieta trasformazione e precisazione della sua poetica e di contatto lirico piú difficile con un materiale sentimentale mai fermo e specialmente in questo periodo agitato ed esuberante.

II Foscolo dei sonetti maggiori troverà piú in profondo, in una direzione piú sicura di meditazione, di ripensamento, un dominio migliore dei propri mezzi espressivi utilizzando questa esperienza prima e questo sforzo cosí interessante ed efficace di organismo continuo ed energico, di essenzialità e di ricchezza, di lirica nata su condizioni presenti di dramma e di urgenza eloquente.

Il primo sonetto (Non son chi fui) apre bene la serie e bene si lega al secondo (qui cronologia e collocazione del poeta coincidono) su questa posizione di poetica e di atteggiamento di base al nuovo Ortis, di definizione di uno stato disperato e di una volontà di vita in un generale senso di buio sfondo, di mondo in crisi che fa in qualche modo ripensare alle Odi del «conio dell’autore», alla confusa aria di crollo e di attesa che è anche il lievito di tanta grandiosità drammatica del Foscolo.

Forme piú languide e letterarie («e secco è il mirto, e son le foglie sparte / del lauro[4], speme al giovanil mio canto»), forme di eloquenza per quanto raccordate da un’energia interna e da una coerenza di colore tragico («empia licenza e Marte, / vestivan me del lor sanguineo manto») vengono avvolte da un movimento generale, che soprattutto in questo caso ci interessa, ben enunciato dall’inizio in cui la ripresa dei versi di Massimiano («Non sum qui fueram: periit pars maxima nostri; / hoc quoque quod superest languor et horror habet») è stata perfettamente assimilata in questo tono fondamentale di disperazione tesa e lucida e in questa tipica frase poetica che avvicina forme perentorie e staccate (eloquenti, drammatiche e pur trasportate in un’onda unica di lirica) a un movimento di abbandono patetico anch’esso però ben scandito e contenuto in quanto tipica volontà di incontro fra epigrafe e lirica agitata e continua che vuol tradurre una storia personale e generale nella sua condizione di crisi con l’efficacia di un rilievo potente contrastante con l’abbandono patetico delle elegie giovanili e della prosa poetica delle «Quarantacinque lettere» (di cui riprende semmai i momenti piú unilateralmente risentiti): un rilievo persino accentuato dalla punteggiatura[5] da cui i movimenti piú aperti scattano con maggior effetto e che nel 1803 verrà in qualche modo attenuato nella sua qualità piú esteriore di sottolineatura minuta (come del resto avveniva nella prima ode: momento di rilievo piú minuto, là per effetto gioioso e prezioso, qui per effetto drammatico). In questa esigenza e volontà di rilievo e di lirica drammatica sulle espressioni piú convenzionali e blande si levano quelle estreme e fortemente personali-ortisiane, quelle su cui la volontà di unire movimento, contrasti e fermezze di epigrafe piú facilmente si realizza:

cieca è la mente e guasto il cuore...

furor di gloria e carità di figlio...

tal di me schiavo e d’altri e della sorte...

e so invocare e non darmi la morte...

E se il limite di questo tentativo è evidente (qualcosa di concettoso svia e complica la vera concisione “nuova”, il movimento spesso è coperto da forme gonfie ed esteriori, puramente connettive), non si può neppure dire con il Fubini che tutto si riduce a pagine di diario e a confessione, a versi epigrafici staccati.

Questo sonetto, frutto di un periodo di ripresa artistica dopo il silenzio del 1799, di un anno di vicende contemplabili piú che direttamente espresse in poesia, ha come il seguente il segno di una volontà costruttiva che meglio fa risaltare le sue cadute e d’altra parte il valore di novità della linea e del linguaggio. Costruzione in forme coerenti, in simpatia ad una essenziale curva di contrasto drammatica e di onda risolutiva in fermezza epigrafica, linguaggio ortisiano dell’uomo dall’«aria assoluta» fremente, eloquente ed estremo (l’assoluto e squallido «perí» letterario, ma foscolizzato, «cieca la mente, guasto il cuore», e d’altra parte forme energiche ed eloquenti «a mia fiera ragion chiudon le porte», «empia licenza e Marte», «sanguineo manto» che corrispondono a questa enfasi cupa e perentoria, a questi bisogni di ricchezza e di concisione non gelida e lineare, di consolidamento, non di rasserenamento della lava sentimentale che colerà piú libera nell’Ortis). Quindi non la purezza dei grandi sonetti, ma neppure un’espressione casuale, diaristica: una espressione artistica cosciente e nuova su di una materia sentimentale ancora in movimento ed anzi nel pieno della propria mobilità verso uno sfogo integrale ed energico in motivi di crisi storico-autobiografica presentati non languidamente come nelle «Quarantacinque lettere», ma già nella forma perentoria e vitale dell’Ortis.

Certo l’utilizzazione degli spunti letterari non è sempre felice (cosí il «conosco il meglio ed al peggior mi appiglio» che traduce Ovidio e riprende Petrarca con una certa sovrapposizione al vero sentimento di rifiuto del suicidio e con un effetto piú di “simpatico” contrasto che di vera poesia), il pericolo del concettoso e del gesto è sempre presente, e solo piú tardi (nel 1813) il Foscolo risolleverà il grido piú esterno della seconda quartina sul motivo centrale della crisi che si accompagna a quella del contrasto fra desiderio di morte e volontà di vita, con la bellissima correzione di clima “graziesco”: «ed arte / l’umana strage, arte è in me fatta e vanto». Ma si guardi appunto a questo finale e malgrado la inferiorità del particolare e il suo grezzo autobiografismo (che darebbe in parte ragione a «diario», a «confessione» se non si sentisse a sua volta utilizzato e non preminente) si senta come nella linea della poesia (svolgimento e contrasto disperato nella costatazione drammatica, non languida o politica o analitica) questi versi ultimi risuonano con energia consapevole del proprio effetto poetico.

Esercizio essenziale, esempio essenziale nella sua immaturità sulla via dei grandi sonetti come insieme modo di raccolta esemplare di sentimenti e di atteggiamenti ortisiani. Il sonetto del 1798 si poteva ridurre ad un’originale imitazione alfieriana, questo è l’inizio di una poesia inconfondibile e originalmente nata entro una situazione sentimentale e storica che non è piú quella alfieriana.

Questo «cuore guasto», espressione che torna nell’Ortis, secondo una precisazione rilevatissima che deriva da questa poesia (spesso le espressioni di questi sonetti ortisiani rappresentano nell’Ortis motivi chiave, sottolineati e rilevati proprio dalla loro precedente vita lirica che li ha formati e potenziati), può indicarci la direzione del nuovo linguaggio foscoliano tra sonetti e Ortis ma tanto piú interessante in lingua poetica e propria nella lingua eletta del sonetto. L’espressione «guasto il cuore» sforza il comune accordo di qualità attribuibile ad un certo nome (cuore) – cosí fortemente introdotto sulla scia alfieriana nella sua nozione romantica su cui tanto l’Ortis insisterà. Già l’Ossian aveva portato accordi nuovi e rivoluzionari e l’Alfieri aveva indicato una nuova via di linguaggio alimentato dall’analisi dei sentimenti, dalla passione politica ed agonistica, ma il Foscolo porta novità piú decise e con un senso del linguaggio sempre piú sicuro e storico in cui egli saprà con riprese-evasioni e creazioni, con audaci sintesi realistico-auliche creare forme forti ed elette di inconfondibile originalità. In questa fase il suo sforzo va a queste forme intense e quasi brutali, non autorizzate da precedenti esempi e pure non eterogenee proprio alla energia maggiore di forme antiche e originarie della lingua italiana.

Anche il secondo, sulla soglia del nuovo secolo e sull’accordo solenne di un avvenimento generale e grandioso (la fine del secolo che il Parini del Messaggio esprime con parole simili, ma con tutt’altra direzione, mentre qui c’è semmai un’eco della grandiosità cupa e generica dell’ode A Dante o Il suo tempo e di visioni montiane) sentito nel riferimento ad una misteriosa fine di un’epoca, e di una situazione personale drammatica definita in ogni suo aspetto nella terzina

(figlio infelice e disperato amante,

e senza patria, a tutti aspro e a te stesso,

giovine d’anni e rugoso in sembiante...)

rispecchia questa volontà di tradurre questa situazione drammatica pienamente espressa (e in tal senso la rappresentazione di autoritratto è piú completa e fortemente foscoliana) in una linea energica e rilevata, chiusa fra due movimenti energicamente interrogativi: «Che stai? Che stai?», che salgono dal rimprovero e dalla costatazione (prima generale della fine del secolo e della fine degli anni giovanili, poi piú personale nella seconda terzina) ad una esortazione che nella seconda sua forma si appoggia con la tipica ossessione ortisiana della morte, al pensiero di un incalzare della morte («E già morte t’è appresso»).

Lo schema è chiaro ed esemplare, nella direzione da noi indicata, ma la realizzazione è assai discontinua e risente anche qui e forse piú che nel primo dell’urgenza pratica tradotta in forme scolastiche e incerte proprio per la sua eccessiva praticità di discorso comune e programmatico, di una suggestione piuttosto facile di grandiosità e di quel gusto del particolare affiorante nel v. 11 e che si ritrova poi nel sonetto autoritratto. E nel linguaggio non si può non notare la presenza di forme pesantemente letterarie («fatiche dotte / a chi diratti antico esempi lascia...») o inefficacemente concise («hai già troppo di vita ore prodotte») o sulla linea di questo incontro altra volta efficace di forme auliche («ambascia», «precede le cure»!) e innovatrici e quasi prosastiche, di una forma schiettamente brutta e fisica «rugoso in sembiante» che ricorda un’audacia piuttosto grottesca degli anni dell’adolescenza

i rugosi dí.

La prima quartina con il suo margine di cupa enfasi ha tuttavia un risultato di notevole altezza e riesce ad assimilare ad un linguaggio foscoliano e ad una linea grandiosa ed energica il «precipita» e il finale effetto sugli anni giovanili inghiottiti dalla notte fasciata[6] da una fredda dimenticanza: immagine piú suggestiva che profonda, ma tuttavia capace di costituire una base di energia e di cupa e fantastica visione per uno svolgimento successivo che ci attendiamo piú scattante e perentorio. Ma la seconda quartina, iniziata su di un movimento omogeneo a quello della prima terzina del I, cade nella sollecitazione eccessiva del primo verso troppo folto di sostantivi nella direzione di estrema concisione («che se vita è l’error l’ira e l’ambascia»), di un drammatico ingorgo di sentimenti turbatori che costituivano la vita del giovane appassionato, nelle forme incerte già svuotate e nella fiacchezza dell’esortazione «or meglio vivi» che provoca solo un tentativo di movimento energico che si fa costruzione pesante e contorta. La terzina riprende con piú decisione la situazione della seconda quartina e nei primi due versi raggiunge la migliore condizione di questa lirica drammatica, ma il terzo verso è solo sostenuto dalla funzione di contrasto e la seconda terzina che vuole svolgere piú energicamente il passaggio da costatazione dolorosa e rivelata ad interrogazione stimolante e ad esortazione con un procedimento tutto interrogativo si ingorga nel viluppo complicato della seconda interrogazione:

Che stai? né siegui ormai che t’è concesso

questa ch’è duce alle incerte tue piante

larva di gloria?,

e mal si risolve nel finale «E già morte t’è appresso» incalzante e perentorio, ma come troppo breve e da battuta teatrale.

Nell’edizione 1803, in cui il sonetto da II passa all’ultimo posto dove rimane definitivamente, il finale fu trasformato e rialzato:

Che stai? breve è la vita e lunga è l’arte,

a chi altamente oprar non è concesso

fama tentino almen libere carte.

L’alfierismo concede qui al Foscolo un miglioramento sicuro («lunga e sublime è l’arte o il viver breve» tradusse già l’Alfieri il detto ippocrateo «vita brevis, ars longa») sul motivo del Principe e delle lettere della poesia (il «liberal carme» dei Sepolcri) in cui l’uomo magnanimo compensa la sua impossibilità ad operare nel campo dell’azione: riflesso lontano dell’Ortis e dell’Orazione a Bonaparte. E giustificazione dello spostamento del sonetto quasi a squillo di riscossa nel clima di studio accennato dal Carteggio. Ma direi che l’elemento “morte” era essenziale alla concezione del sonetto nel suo legame con quella precedente.

* * *

Nella serie dei sonetti amorosi ispirati o adattati al mito ortisiano di Teresa-Isabella (dai «crin d’oro») che si intercala probabilmente fra i primi due autobiografici e l’autoritratto, sono violenza sentimentale ed estasi con residui da idillio e di elegia di fase persino “proto-Ortis” o «Quarantacinque lettere».

Vedemmo già nel corso passato il VI (V nella edizione definitiva) in relazione al sonetto del 1797

Quando la terra è d’ombre ricoverta,

notando quanto vi era rimasto del vecchio sonetto idillico-elegiaco con i suoi languori, il suo descrittivismo pittoresco sentimentale, con la sua aggettivazione convenzionale, e quanto di nuovo v’entrava nella linea lirico-tragica, per un organismo piú vivo e movimentato e insieme piú solido e fermo nelle sue espressioni private delle sfumature di intonazione preromantica.

Il sonetto cosí come ci si presenta nell’edizione 1802 (e 1803 che si diversifica solo per l’abolizione di sospirosi puntini al verso 13, per un piú deciso «m’appoggio» invece di «mi appoggio» al verso 9, e per un piú fantastico plurale «mute ombre» al 4 con un procedimento usato anche nell’ode genovese a proposito di «vie profonde del tirreno talamo») appare (piú appoggiato al Petrarca con il bruttissimo 9) tanto piú limitato nel suo valore poetico proprio per lo sforzo di adattamento e di contaminazione cosí simile a quello di certe parti dell’Ortis secondo, in cui uno spirito piú vivo e particolari piú intensi non possono però né disperdere tracce indelebili dell’originaria fiacchezza e vaghezza né sempre sostituire quello che in quella diversa fase poetica per quanto piú immatura vi era di coerente e di vitale.

L’ambiguità del risultato è sommamente istruttiva sia per conoscere come lavorava il giovane Foscolo, sia per renderci conto del carattere di questi sonetti in cui materialmente o idealmente una nuova concezione poetica, ben chiarita nei primi due piú genuini ed esemplari, lotta non solo con una materia sentimentale piú ricca che precisa (e le parti amorose sono le piú incerte nel nuovo Ortis), ma con uno strato poetico idillico-elegiaco che solo piú tardi nella grande poesia dei Sepolcri e Grazie offrirà il suo succo piú segreto e si fonderà in zone profonde con l’elemento drammatico e con il tono di estasi che prevalgono in zona sonetti-Ortis.

Il Foscolo del 1800 investí la vecchia poesia del suo nuovo spirito (e cercò di adattarla ad una nuova situazione: non l’addio del primo sonetto, ma la descrizione di una situazione romantica e certamente piú interessante di animo tormentato in colloquio con se stesso e con l’immagine salvatrice, ma insidiata da lontananza e da ostacoli della donna) soprattutto sui punti piú caratteristici per la sua “poetica” del sonetto: l’inizio che dalla blanda cadenza originaria «Quando la terra è d’ombra ricoverta...!» passa al perentorio «Cosí gl’interi giorni in lungo incerto / sonno gemo!» e alla costruzione continua a forza di «e» («e soffia il vento, e in su l’arena estrema / l’onda va e vien che mormorando geme, / e appar la luna tra le nubi incerta») sostituisce dopo l’esclamativo un movimento di contrasto essenziale nel nuovo sonetto e nella concezione sonettistica di questa fase (ma poi... e l’ultima terzina comincerà «Ma per te...»); la fine delle quartine (dove nel I era il grido «ed arte lo fanno d’oro...» e nel II l’esortazione «or meglio vivi») dove il sentimentale ed analitico «e del mio cor che sanguinando geme / ad ora ad or palpo la piaga aperta» si trasforma nel complesso e drammatico e vasto «ad una ad una / palpo le piaghe onde la rea fortuna / e amore, e il mondo hanno il mio core aperto».

E nella fine della seconda terzina completamente trasformata (e che aveva nel suo languore acerbo un movimento caratteristico[7]:

Lasso! me stesso in me piú non discerno,

e languono i miei dí come vïola

nascente ch’abbia tempestato il verno)

introduce un verso essenziale animato da un verbo essenziale di quella scelta di parole “poetiche” romantiche che il Foscolo implicitamente fa in questa fase:

con le speranze mie parlo e deliro!

Ma la trasformazione non è completa e, malgrado l’effetto suggestivo della prima quartina (che fa pensare già a effetti delle Grazie su di una direzione ancor acerbamente romantica, «ma poi quando la bruna / notte gli astri nel ciel chiama e la luna») la complessità del motivo delle «piaghe» (in cui entra il senso complesso dell’“infelicità” essenziale ai sonetti e all’Ortis), la drammaticità dei contrasti, il sonetto risente in maniera irrimediabile della contaminazione che noi avvertiremmo anche se mancasse il sonetto del 1797 e che è aggravata dall’introduzione di elementi petrarcheschi (5 e 9) chiamati probabilmente a mediare il passaggio fra i due strati. Il tepore e la sfumatura pittoresca del primo sonetto (cosí coerente in quello stadio di fantasticheria) sono rimasti ad aduggiare il sonetto, e lo sforzo di movimentarlo ed inasprirlo (a volte troppo esteriormente, come nel 10 «ed or prostrato ove strepitan l’onde») su di una linea essenziale al gusto di questi anni né cancella cadenze lontane, come il verso del Lamberti reintegrato anzi per maggior fedeltà alla nuova situazione (non di addio), né cela la sua qualità di sforzo persino troppo calcato nel rilievo di contrasto su di una materia originariamente diversamente disposta.

La drammatizzazione non riuscita nel V (pur cosí ricco di spunti suggestivi, cosí foscoliano e suadente con fantasticheria drammatica in uno stadio composito, intermedio) è piú evidente nel VI, tutto piú sollecitato dal ritmo incalzante annunciato nell’inizio simile e diverso da quello precedente,

Cosí gl’interi giorni in lungo incerto

sonno gemo

Meritamente, però ch’io potei:

abbandonarti!

(l’esclamativo fu soppresso nel 1803 in coerenza allo smorzamento dei rilievi bruschi e in favore di onde musicali piú continue e spaziose), e legato al motivo fondamentale di questo sonetto della lontananza, del distacco e della vita errabonda[8] che fanno pensare all’accumularsi su di una situazione biografica che potrebbe essere il viaggio alla Spezia del 1801 in missione militare, di ricordi dell’anno 1799-1800 delle vicende militari in Liguria adattate all’amore per la Isabella e all’iniziale situazione dell’abbandono di Jacopo già delineato nelle «Quarantacinque lettere» e ripreso nella nuova stesura proprio nelle pagine di prima sutura. E si noti che il motivo del varcare anelante le rupi ecc. è proprio di una delle ultime delle «Quarantacinque lettere» e ricompare piú precisato nella nuova stesura, cosí come abbiamo visto la lettera XLV far da base alla lettera alla Nencini e alla Roncioni dell’inizio del 1801 ed una poi ripresa attraverso la nuova accentuazione piú disperata e piú vissuta nel nuovo Ortis. Si ricordi ancora che questo motivo del distacco è essenziale alla ripresa dell’Ortis e fu proprio il momento di accordo fra vita e romanzo che piú facilmente stimolò il Foscolo alla ripresa dell’Ortis sull’eccitazione del «tradimento» del Sassoli e l’impeto creativo di questo periodo fra metà 1800 e 1801.

La vicinanza fra i due sonetti (legati anche dal «sospiro» e «sospirando» del verso 8, dall’immagine del «cuore» piagato del primo e «sanguinente» del secondo in cui si può vedere un riflesso del «cor che sanguinando geme» del sonetto del 1797) serve però anche a metter meglio in luce la piú sicura drammaticità del secondo, pur nella mancanza di momenti suggestivi come quello della quartina del primo e nell’eccesso che pare voler compensare la tendenza idillico-elegiaca piú propria del momento amoroso come si era presentato nel sonetto 1797 e nelle «Quarantacinque lettere» oltre che forse in altri sonetti a noi non pervenuti.

Lo spunto è letterario come nel caso del I sonetto (anche qui un verso e un’immagine di Properzio

Et merito, quoniam potui fugisse puellam

Nunc ego desertas adloquor alcyonas...

– alessandrini e neoteroi sono come si sa le letture piú foscoliane di questi anni e la stessa ode ad esse rinviava con piú forza – e la ripresa di un verso ariostesco dal Capitolo per la partenza per la Garfagnana «Meritamente ora punir mi veggio / del grave error ch’a dipartirmi feci / da la mia donna[9]) e in questo caso la letterarietà che presiede all’inizio ben indica come questi sonetti sulla volontà poetica di autoritratto e di «rime operose» che devono sfogare il dolore tanto corrispondano ad una generale ricchezza di motivi e di urgenze espressive quanto singolarmente rappresentavano prove artistiche tutt’altro che casuali e ben calcolate: tutt’altro che diario e confessione, ma semmai costruzione poetica romantica che si esprime con fermezza e pienezza sentimentale, non per ingenua immediatezza (semmai un certo urgere impuro rientra non nelle singole ispirazioni, ma nel bisogno generale di autoritratto).

Ma lo spunto letterario viene intensificato nel ritmo appassionato e questa volta realizzato in una coerenza estrema e persino eccessiva e faticosa (il Foscolo non raggiunge la misura nei sonetti e devia per eccesso o per difetto): dal paesaggio questa volta davvero romantico sin nella prima presentazione piú clamorosa che intima (piacque molto al Carducci, che aveva anche come poeta un certo gusto per il sonante come in certi passi di Miramar):

or grido alle frementi

onde che batton l’alpi; e i pianti miei

sperdono sordi del Tirreno i venti

(in cui prevale questa impressione di grido e di gara fra il romantico e la natura tempestosa), dalla ripresa piú intensa nel viaggio “angoscioso”:

e queste

rupi, ch’io varco anelando, e l’eterne,

ov’io qual fiera dormo atre foreste;

alle immagini anch’esse vistose del finale, all’espressione agitata dell’“esilio”, tutto legato in un periodo lungo, faticoso, anelante (vv. 5-11) che travolge e drammatizza un’espressione di consolante bellezza amorosa

(dal bel paese ove or meni sí rei,

me sospirando, i tuoi giorni fiorenti).

Ma l’esemplarità di questo sonetto, che sembra compensare dolcezze e tepori languidi precedenti, paesaggi idillico-elegiaci, non implica di per sé una riuscita poetica: troppo tumulto, troppa durezza, troppa coerenza pur nel rilievo bello dei versi centrali e l’improvvisa luce di quel «ristoro» al cor sanguinente che è uno dei punti su cui si impernierà la poesia del Carteggio Arese. Piú tardi il Foscolo riempirà di un’ispirazione piú alta e tenterà piú armoniosamente la linea movimentata qui cosí fortemente presentata.

Piú debole nella costruzione generale e parzialmente piú bello nelle due terzine, il sonetto IV (V della 1802) sembra accennare ad una dilatazione della immagine di Teresa-Isabella (con residui di Teresa-Teresa e Laura) nella nuova esperienza di «voluttà» (non di libertinaggio) della Fagnani Arese e nella esaltazione fra stilnovistica e neoclassica che caratterizza i legami nel Carteggio fra Ortis e ode All’amica risanata.

Probabilmente scritto nell’epoca dell’amore per la Roncioni, mi pare indubbia una revisione dell’ultima parte nel nuovo periodo, in cui l’elaborazione dell’Ortis secondo coincide con la utilizzazione della nuova esperienza e del tono rapito di contemplazione in cui l’estasi fiorentina stilnovistica si scioglie nella commossa e affettuosa esaltazione neoclassica gioiosa ormai come nella prima ode, ma ricca di fascino sentimentale.

Cosí, mentre la prima parte risente di una disposizione poco intensa malgrado la solita durezza dell’ex abrupto («Perché taccia il rumor di mia catena») in verità assai brutta e sul limite del concettismo, quasi diluita fra dramma e movimento idillico-elegiaco che fa pensare o a strati precedenti[10] o ad una ricaduta per equivoca beatitudine di estasi non mancante anche nell’Ortis («se con lei parlo o di lei penso e scrivo», che è ripresa petrarchesca
assai fiacca – «in guisa d’uomo che pensi e pianga e scriva» – di Di pensiero in pensier), la seconda quartina si appoggia in questo tenue dramma della «discrezione» sul paesaggio blando del «solitario rivo» notturno, svolgendosi in un movimento quanto mai esterno e letterario sulla sua ripetizione (qui... qui) di falsa immediatezza: «qui affido il pianto e i miei danni descrivo, / qui tutta verso del dolor la piena»; invece la seconda parte ci porta in un gusto e in una zona di sensibilità diversa e in una forza di costruzione che senza eccesso drammatico utilizza però il senso organico e il movimento dei sonetti piú esemplari del 1800-1801:

E narro come i grandi occhi ridenti

arsero d’immortal raggio il mio core;

come la rosea bocca e i rilucenti,

odorati capelli, ed il candore

delle divine membra, e i cari accenti

m’insegnarono alfin pianger d’amore.

E nello stesso tempo viene introdotto un gusto di contemplazione che – malgrado l’indugio su qualche particolare che fa ripensare al sonetto autoritratto – dalla descrizione di Teresa dell’Ortis passa al senso ampio e sereno della bellezza quale comparirà nella grande ode. In questo urto di direzioni e non solo in una fiacchezza sic et simpliciter della prima parte la poesia mostra la sua deficienza e fa presupporre una genesi faticosa ed a strati o a giustapposizione in cui «la piena del dolore» non basta a drammatizzare e d’altra parte la visione beata e della fanciulla-dea si svolge già in termini di commozione superiore, con un distacco maggiore («e narro») in cui i particolari piú ingenui o visivi «rosea bocca», «i rilucenti odorati capelli», si sostengono nell’appoggio della grande visione musicale dei «grandi occhi ridenti / arsero d’immortal raggio il mio core» (visione mobile che ha imparato dall’ode genovese e superato il semplice gusto figurativo settecentesco, baleno luminoso che distacca la nostra attenzione dagli altri particolari piú esteriori anche se rilevati da un’atmosfera «divina» e «affettuosa», «i cari accenti») che lega l’apertura bellissima della terzina all’acme vera e provoca un propagarsi omogeneo e “simpatico” di onde musicali e di figure tutte legate e simili fino alla soluzione finale in cui la vecchia redazione «m’insegnavano alfin che cosa è amore» venne migliorata e mossa in un verso patetico e sereno:

m’insegnavano alfin pianger d’amore.

La situazione speciale di questo sonetto – pur nella sua iniziale vicinanza agli altri due amorosi – avvicina nella sua parte migliore al sonetto VIII (VI del 1802) che riferito certamente alla Isabella Roncioni deve però sentirsi (ed è curioso come molti critici non abbiano sentito tale particolare dimensione) come ripensamento milanese di un ricordo beato.

* * *

Il sonetto autoritratto si lega bene ai primi sonetti (anche se cronologicamente può portarsi piú vicino alla fine del 1801 in piena epoca di Carteggio Arese[11]), specie al vecchio I cui lo lega anche la citazione petrarchesca «Ch’altri non ha che me di cui mi lagne», che riassume il contrasto finale specie nella forma primitiva: «errar, pentirmi, ecc.».

Non è certamente un capolavoro e il suo fascino come di quello alfieriano da cui prende le mosse è un fascino prevalentemente di bella dizione, di recitazione animata e personale con quel tanto di teatrale che la genuina impostazione tragica ed eloquente del Foscolo comportava sui limiti fra arte e vita. Ma per la verità certi sdegni contro la vanità di questo sonetto sono alquanto esagerati e se l’enumerazione, come disse il Carducci, non è poesia, si guardi meglio a due punti fondamentali: la forza con cui si rivela sotto le caratteristiche piú accarezzate del ritratto fisico quello interiore nella sua sostanza nuova di contrasto fra desiderio di gloria e di pace (momento essenziale della situazione ortisiana sotto cui si aprirà la meditazione del sonetto Alla sera) e la connessa consapevolezza tecnica di un ritmo forte e lento, a momenti che liberano slarghi improvvisi.

Momento di raccolta di un motivo cosí diffuso negli anni ortisiani, tentativo di svolgere una rappresentazione drammatica e ferma (fra autoritratto romantico in movimento e definizione epigrafica, esemplare da ritratto neoclassico plutarchiano) facendo aprire un piano piú profondo sull’eccitazione di quello piú esterno e fisico.

E insieme nel legame Alfieri-Foscolo (Vita, Tragedie, Ortis) la prosopopea romantica dell’io e il gusto di definizione neoclassica (per cui i ritratti cosí abbondanti nell’arte neoclassica sembrano poi il riscatto piú sanguigno e vigoroso di tanta calma posticcia e gli scritti neoclassici abbondano di ritratti – si pensi a quello del Murat nella Storia del reame di Napoli del Colletta).

Va intesa dunque la sua importanza, la sua storicità, l’incontro in esso di esemplarità e di movimento tragico, di gusto teatrale e di vagheggiamento del personaggio del proprio romanzo vitale e va considerata la doppia direzione di minuto particolareggiare (che è certo la ragione prima dell’angustia del sonetto e la fonte pericolosa di cadute e di banalità piú visibili nella prima redazione, ma mai del tutto eliminate) legata al bisogno notevolissimo di concentrare note sparse nel lavoro di quegli anni, di chiudere il motivo dell’autoritratto in lui vivo da tanto tempo. Detto questo si deve sentire già nella prima e peggiore redazione la forza efficace dentro la seconda quartina in cui dalle determinazioni del ritratto fisico (fra romantica vitalità e tensione e un accarezzamento quasi sensuale in cui non manca il gusto del figurativo e dello scolpito, tanto che in questi versi virili-femminili ritornano echi secenteschi di poesie sulla linea Rolli-Savioli[12]) si liberano versi piú continui e foscoliani nell’immagine della rapidità («ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti») e del contrasto fra il poeta e le cose. Che introducono alle due terzine in cui sulla volontà di un ritratto tutto interiore salgono le note piú intime «mesto sovente e solo, ognor pensoso», e nel contrasto ortisiano fra ragione e cuore (Ulisse-Ajace) si precisa il motivo piú intenso e riassuntivo: gloria e pace, fama e riposo nella morte. Con cui il Foscolo si avviava alla condizione piú intima e non solo “ritrattistica” e tragico-lirica dei sonetti maggiori.

Ma la soluzione finale era quella che piú indicava le deficienze artistiche del sonetto, il suo limite di enumerazione e di giustapposizione in una prova che voleva congiungere estremo rilievo epigrafico e linea drammatica continuamente pronta ad uscire dai versi piú lenti e guardinghi (e in questo senso malgrado l’esempio alfieriano il Foscolo accoppiava ad esigenze troppo pratiche descrittive una volontà notevole dal punto di vista artistico, un’ambizione non ben realizzata): gli ultimi versi, basati su di un seguito di infiniti che volevano riprendere la fermezza degli aggettivi definitori e smuoverla nella loro qualità di versi senza limite, avevano in sé una inevitabile pesantezza e indeterminatezza fra prosastica e trasognata, una specie di orizzontalità aggravata dall’impaccio degli «or... or» del v. 13 determinanti un pessimo effetto di suono.

Nel 1803, trascurando la prima parte con i suoi momenti piú insopportabili su cui ritornerà con varia intenzione piú tardi, il Foscolo puntò sul miglioramento dell’ultima terzina introducendo l’essenziale «di vizi ricco e di virtú», nato anch’esso da un ripensamento ortisiano anche piú lontano dal Leitmotiv suggerito dal verso petrarchesco, meglio accordando la terzina con i movimenti precedenti, e concentrando con maggiore forza drammatica il senso del contrasto, del cuore romantico (ben lontano dall’anima bella preromantica e dalla calma compostezza neoclassica che trionferà nelle Grazie senza perdere piú questo interno appoggio di esperienza drammatica), dell’urto essenziale fra cuore e ragione con la vittoria del cuore: e, pur perdendo la conclusione fondamentale di «gloria e pace» piú esplicita nei riguardi dell’autobiografismo ortisiano (ma suonava anche come ripetizione rispetto a fama e riposo), l’ultimo verso cosí rilevato e sicuro (un futuro, una certezza piú ancora degli altri verbi finiti introdotti al posto degli infiniti) stringe con piú rigore tutto il sonetto. Di nuovo un esempio di raddrizzamento romantico e di miglioramento sicuro, di snellimento e organicità, di linea piú vibrante anche se con caratteri di drammaticità piú declamata molto coerenti con la natura del sonetto e il suo fondamentale «egotismo» tragico-lirico.

Piú tardi, nel 1808, in fase didimea, il Foscolo riprese il sonetto e lo corresse lavorando sui versi 3 e 4 introducendo il bellissimo «ed al sorriso lenti» al posto dell’inutile «tersi denti», e ravvivando selvaggiamente il «largo petto» in «irsuto» con due tocchi solo apparentemente contrastanti e condensando in parte nel 7 le caratteristiche di temperamento prima sparse nel 7 e nell’11 («tenace» in «ostinato», «leale» assorbito da «schietto»), mentre nelle due terzine aboliva giustamente il 9 («talor di lingua e spesso di suon prode») cosí esteriore e vanitoso, e legava tutto il ritratto intimo al contrasto (speranza e timore, vile e prode) sviluppato e gridato nei due bei versi 12-13 che appartengono alla vera poesia foscoliana – usufruita e dominata da riminiscenza alfieriana («la mente e il cor meco in perpetua lite») – al suo linguaggio intenso e graduato, intellettuale ed eloquente-drammatico.

Anche se la lettura tira ad una declamazione, ad un grido che il Foscolo piú grande avrebbe in altra occasione attenuato e approfondito, l’ultimo verso invocativo e asseverativo introduce già in quel gusto di colloquio che è tipico del 1802 sul margine anche dell’eloquenza e della battuta tragica. Un’ultima concezione piú tarda introduce nel verso 3 l’aggettivo «arguto», parola che tornerà nelle Grazie («il silenzio arguto in viso» – Inno III, v. 176).

Ma i difetti essenziali non scomparvero e l’«egotismo» che avvertiva nella lettera inglese pur cosí intimo ed essenziale alla nascita della sua poesia lasciò tracce ineliminabili del suo aspetto piú ingenuo e retorico e, in questo caso, della sua ascendenza letteraria alfieriana (il succo romantico alfieriano si potrebbe dire che frutta liricamente nel Foscolo come il formarsi romantico dell’Ortis frutta davvero nella grande arte del Leopardi: fra i tre vi sono legami di una eccezionale intensità: e vanno indicati per una caratteristica esemplare del nostro vero romanticismo) e della sua origine spuria non tutta poetica anche se nutrita di un essenziale motivo poetico e di una volontà costruttiva non semplicemente pratica e funzionale ad un effetto pratico.

Il sonetto VIII (IV del 1802 e forse messo a capo della serie proprio ad indicativo esemplare di un tono “amoroso” piú raggiunto fuori degli impacci delle “contaminazioni”[13]) appartiene certo al periodo milanese 1801 come la stesura definitiva del IV e corrisponde ad una fase avanzata dell’Ortis (la visione di Firenze, lo sviluppo piú sicuro dell’immagine della fanciulla celeste), anche se il IV può far piú direttamente pensare alla intrusione nella immagine di Teresa di suggestioni dell’amante milanese. Certo il sonetto in questione è lontano dall’occasione-ricordo (e si noti ad ogni modo che di ricordo, di ripensamento si tratta in un’aria di distacco e di nostalgia, non di passione presente) e d’altra parte, come giustamente osservò il Fubini, con il quale non concordo però nel giudizio complessivo troppo favorevole, mostra caratteri di maggiore maturità poetica e un avvicinamento al clima dei sonetti maggiori. Sia nel movimento di apertura da “inno” (e che richiama in parte l’apertura del sonetto Alla Musa) anche se troppo aperto ed enfatico (enfasi sostituisce e integra drammaticità in questi sonetti foscoliani), sia nella rappresentazione della giovane tra stilnovistica romantica e neoclassica, sia nell’uso (però assai discutibile nella sua resa artistica) dell’elemento di paesaggio storico.

I precedenti del sonetto sono questa volta tutti interni all’opera precedente del Foscolo (anche se la lezione delle rime alfieriane non manca anche in questo caso nel legame di paesaggio e ricordo amoroso persino piú concettoso nell’Alfieri): specialmente le lettere scambiate con la Nencini e le discrezioni di Firenze che affiorano nella seconda parte dell’Ortis.

Il Lungarno (forse quello Corsini dove sorgeva la casa abitata dall’Alfieri) era il luogo di convegno tra il poeta e la Nencini (v. lettera di questa del 9 gennaio 1801 – Ep. I, p. 96 – e lettera successiva del Foscolo – p. 98) e Firenze con la sua suggestione di medioevo vigoroso e gentile e con il suo carattere di paese sacro alla poesia («sacro paese» è chiamata nella lettera di addio alla Roncioni, Ep. I, p. 99 e nell’OrtisProse, II, p. 9 «In questa terra beata si ridestarono dalle barbarie le sacre muse e le lettere. Dovunque io mi volga, trovo le case ove nacquero e le pie zolle dove riposano que’ primi grandi toscani; ad ogni passo pavento di calpestare le loro reliquie. La Toscana è un giardino; il popolo naturalmente gentile; il cielo sereno e l’aria piena di vita e di salute» e prima nella lettera del 27 agosto – Prose, II, p. 5 – aveva parlato del suo vano desiderio di vedere l’Alfieri e della sua adorazione della tomba di Galileo, Machiavelli e Michelangelo – «contemplandole io tremavo, preso da un brivido sacro» –, come a pp. 10-11 rievoca nella sua visita a Montaperti la truce visione di una zuffa fra toscani «con l’anima investita da tutte le antiche e fiere sventure che sbranarono la nostra patria») risorge nel ricordo come appoggio e contrasto alla visione della fanciulla celeste.

Certamente questo sonetto dominato dalla visione soave e persino troppo «beata» (in cui il senso neoclassico della donna-dea passato dal fascino elegante ed ironico della lettera padovana e dall’ode genovese all’angusta nitidezza di linee e all’affettuosa sensibilità che troveremo nella seconda ode utilizza anche suggestioni dantesche-stilnovistiche nel loro succo piú intimo, nel loro sviluppo petrarchesco – la grecità medioevale del Petrarca! – in un’aria di estasi giovanile che verrà purificata e precisata nei Sepolcri e nelle Grazie) del gentile mito femminile della fanciulla (tale rimase nel ricordo del Foscolo sempre Isabella Roncioni) porta dentro la sua linea abbondante ed ispirata (ma minacciata dall’enfasi e dalla tenerezza) motivi di ragguardevole novità: come dicevo, il tono di “inno” che si afferma poi nei sonetti maggiori (A Zacinto), la funzione piú insolita del paesaggio storico (quasi riprova di un senso della realtà che il Monti, ad esempio, non ebbe e che insieme al paesaggio naturale parve motivo di originalità grande al romantico Pecchio). Ma per il valore della poesia, pur con questi elementi notevolissimi di preannuncio di un atteggiamento di ripensamento, di commemorazione intima, di pensiero di nuova funzione di immagini storiche (per cui non si può pensare ai Sepolcri pur sentendo ancora tracce dell’ingenuità delle Odi politiche o del sonetto del 1798 che non inutilmente qui si ricorda), va confermato il forte limite di enfasi e di colore del sonetto e se pure non tanto di contrasto fra quartine e terzine si deve parlare, quanto di sviluppo di queste da quelle come da una parte piú colorita ed esterna ad una parte piú meditata ed intima, non si può dare un effettuale valore poetico, come vorrebbe il Goffis nei suoi pregevoli Studi foscoliani (Firenze 1942) e nella sua Antologia foscoliana (Torino 1943) alla rievocazione storica né in toto accettare (come, pur sul piano dei primi sonetti, fa il Fubini) la poesia cosí piena ancora di remore particolari nella stessa parte finale troppo commossa ed estatica sino ad un limite di gusto discutibile, di sopraffazione di beatitudine classico-stilnovistica. E proprio il tremore beato stilnovistico («e fa tremar di claritate l’are»), cosí essenziale nella sua traduzione romantica e neoclassica all’impressione di Isabella (e troppo impressione resta la figura della Diva tra forme classiche – incessu patuit Dea – e la sensibilizzazione mistico-amorosa dell’«aure»), costituisce un limite di gusto insieme acerbo ed eccessivo[14]. Tuttavia le due terzine hanno una vera unità, formano una visione poetica giustificata e piena in cui l’enfasi iniziale del sonetto trova una ripresa piú interna e piú sensibile, una traduzione di figure e di suoni piú omogenei, anche se l’apertura ad inno implicava uno sviluppo grandioso, di lirica encomiastica quale il Foscolo tentò appunto con dubbio esito e con contrastante volontà nelle due quartine; nelle quali si vuole dare una giustificazione meno privata della immortalità concessa al Lungarno fiorentino mentre d’altra parte si vuole, per il giusto rilievo del motivo amoroso dominante, ridurre la prima parte ad un quadro di colore grandioso e fosco su cui spicchi la grazia gentile ed estatica del ricordo amoroso.

Le due direzioni non si aiutano, si ostacolano e il Foscolo non riesce a quel particolare risultato di ingorgo di temi e di snodamento univoco e convergente che è tipico dei Sepolcri (pur sempre su di una accentuazione eloquente) né a quella mirabile coerenza consecutiva che otterrà in A Zacinto. L’enfasi, che indubbiamente si mescola allo stacco piú ampio di ricordo e di affettuoso encomio nell’inizio e allo svolgersi della prima quartina che arieggia dall’esterno il percorso dei grandi sonetti, si aggrava nell’interno della quartina con l’ambiguo incontro della rappresentazione del corso dell’Arno e dell’accenno alla grandezza di Firenze conservatrice della gloria latina. E nella quartina seguente il quadro movimentato della Firenze medioevale, del Lungarno e del ponte coperti di guerrieri in lotta (unico accenno alle lotte fra bianchi e neri e d’altre tra guelfi e ghibellini), con l’aggiunta piuttosto prosastica della ubicazione della casa dell’Alfieri, vale soprattutto come macchia di cupo colore, come rinforzo di drammatica vitalità su cui appoggiare l’incanto estatico delle terzine: dunque funzione se non di contrasto (e pure un inevitabile contrasto nasce fra questo Lungarno medievale e sanguinoso e quello su cui muove leggiadri i passi la divina fanciulla) certo di drammatizzazione per accentuare su di uno sfondo grandioso ed energico (piú nelle intenzioni che nella realtà) il quadro piú importante finale, pieno di luminosità e di beata commozione. Vi era un eccesso efficace di colore: l’onda impaurita (forma esteriore dell’animazione di ben altri accordi foscoliani nei Sepolcri), il papale furore e il ghibellino, il «mescean gran sangue» (in cui «gran» non può voler indicare che quantità, effetto di orrida strage) e, per rialzare l’impressione un po’ da stampa del forestiero cui si indica la casa dell’Alfieri, la trasformazione di questi in «fero vate» (per cui si pensò anche a Dante).

Espressioni coerenti, di effetto, ma poco scavate e del resto anche nella parte piú viva (e certo piú viva sul tumulto un po’ fittizio che la precede) quante forme convenzionali che nella suggestione generale vengono trascurate, ma che meno resistono ad un esame analitico, ciò che non avviene invece nei sonetti maggiori e nella grande ode.

* * *

L’immagine della «Diva» in cui, fra Beatrice e Laura, Simonetta e la donna-dea elegante e seducente, si è sistemata l’immagine di Teresa-Isabella nelle pagine piú estatiche dell’Ortis e nel finale del sonetto VIII, era venuta arricchendosi di nuove suggestioni nell’esperienza amorosa della relazione con la Arese e nella relativa fantasticheria poetica che possiamo intravvedere nel Carteggio intrecciata agli impeti ortisiani della disperazione malinconica pure in eccessi di sfogo drammatico carico persino di quella Schadenfreude, di quel pessimismo ad ogni costo che sfiora il ridicolo, ad esempio nella lettera dell’albergo di Bergamo dove dolore profondo e piccoli contrattempi si pongono tutti sullo stesso piano.

Il senso della fantasticheria e della meditazione malinconica («nelle mie ore malinconiche e fantastiche») si congiunge in quella prosa cosí ricca di direzioni (elegia disperata, prosa esagerata per autoritratto, abbozzo di cronaca e di romanzo galante con rapidi disegni di impagabili figurine: il Petracchi, il marito dell’Arese, il vecchio servitore, e, soprattutto, l’indimenticabile «monsieur» dalla fiaschetta di acqua di rose, che legano questa prosa alla migliore disposizione saggistico-narrativa del Foscolo didimeo delle Lettere d’Inghilterra) al motivo della bellezza femminile come voluttà che trasporta in un regno di fantasia opposto a quello del «mondo reo», come innovazione consolatrice, resa piú tenera ed alta da una specie di nostalgia preventiva che la isola già come ricordo affascinante piú che come gioia presente.

Il Foscolo nel Carteggio venne aprendo una nuova direzione del suo animo poetico meno violenta e drammatica in una disposizione piú meditabonda e ferma in cui il senso piú intimo della sua vita già vigorosamente segnato nei suoi motivi piú vistosi («gli anni perseguitati ed afflitti», il «furor di gloria», il «cuore guasto e leale») gli si venne rivelando sulla sollecitazione di un amore piú tempestoso in apparenza che in sostanza, ricco del nuovo senso della voluttà e della consolazione, del «ristoro».

D’altra parte al bisogno di tumultuosa esperienza si era sostituita l’esigenza di una espressione artistica già manifestatasi nei sonetti minori, nella costruzione dell’Ortis, negli abbozzi del Romanzo autobiografico, nella Orazione a Napoleone (gennaio 1802) – «fama tentino almen libere carte». Bisogno di presentare al pubblico (l’anno 1802 vide l’edizione dell’Orazione, delle liriche, dell’Ortis) e piú in profondo bisogno di accompagnare studio e lavoro artistico che troverà manifestazione essenziale nel Commento alla Chioma di Berenice. Nuove e piú interessate letture di classici latini e greci accompagnavano la nuova fase poetica 1802-1803 in cui l’ode All’amica risanata nella sua lunghissima elaborazione fa da inizio e da coronamento del nuovo periodo sonettistico. Essa perciò va letta al culmine di una esperienza alta di poesia, ma la sua “aura” circonda i sonetti maggiori e vi si respira nella sua arcana, spaziosa eleganza, e di quelli costituisce l’ideale premessa, il piú visibile schermo dall’irruenza precedente e dalle contaminazioni di idillico-elegiaco. Naturalmente la couche dei sonetti maggiori è sempre l’Ortis, attraverso il Carteggio, ma l’ode comunque iniziata prima di loro rappresenta visibilmente il superamento di uno stadio di urgenza drammatica e di confusione poetica di fronte a cui ancora isolata era rimasta l’esperienza neoclassica e vitale dell’ode genovese.

Il 1802-1803 è dunque periodo essenziale per il Foscolo; legato al 1801 in cui si ha la netta ripresa di attività artistica-autobiografica sulla base dei sonetti, ma già arricchito di esperienze e di contatti (Lomonaco), di letture che vedremo fruttare direttamente nel Commento alla Chioma di Berenice.

E la pubblicazione dell’ode e degli otto sonetti prova nel 1802 questo bisogno di sistemazione del proprio lavoro e del proprio passato di preparazione, di nuovo lavoro e di nuova vita, di uscire dal groviglio dei tentativi fra vita ed arte, di separare i due piani pur mantenendo in profondo il loro assiduo contatto. Insieme ad un’esigenza piú pratica (affermazione, gloria, napoleonismo letterario!) affiora nel 1802 un’esigenza profonda di conclusione e di definizione costruttiva. In tal senso anche gli otto sonetti non mancano di una volontà di costruzione nel loro stesso ordine, pur non potendosi parlare né di «poema» (Chiarini e recentemente Ramat) come non parlammo di «diario poetico». Né si può paragonare la loro unità al ciclo delle Grazie o alla costruzione dell’Ortis; bensí si può notare una sistemazione in direzione di un autoritratto in movimento attraverso sonetti in se stessi movimentati e pur partitamente conclusi con volontà di definizione. È allora facile notare che il sonetto autoritratto è sentito come culmine e conclusione mentre i due primi aprono proprio su motivi personali che in quello conclusivo vengono come riassunti e fermati (malinconia, contrasto, volontà disperata di gloria e di pace) e la breve serie dei sonetti amorosi, dopo quello politico che dà il tocco di un colore cosí vivo nel contemporaneo Ortis, si inserisce come parte piú drammatico-elegiaca non dominando, ma come arricchimento essenziale di questo quadro per scene di un’anima romantica. In tal senso il sonetto autoritratto, pur cosí discutibile, è la chiave di questo ordinamento, come nella serie 1803 il sonetto XII (II) con il suo raddrizzamento volontaristico indica la condizione di vitalità disillusa, ma operante, del 1803, la fase del lavoro e della poetica. Ma in questo caso l’appoggio costruttivo è piú debole e una cornice o un ritmo (come dice il Ramat) è assai piú ambigua dato l’intervento di sonetti cosí grandi, cosí diversi per piano profondo. Sicché mentre prima viene posto il sonetto Alla sera, il piú intimo e capace di dare il nuovo tono della poesia meditativa, gli altri sonetti maggiori sono messi in fondo sul tenue appoggio del XII mentre l’VIII (prima IV) assume tale posto proprio per la sua maggior vicinanza ideale (anche se anch’esso assai lontano dalla loro altezza artistica) ai grandi sonetti.

Ogni altra lambiccata escogitazione mirante a trovare ragioni profonde per l’ordine delle due serie in funzione di poema o di romanzo lirico indica una concezione astratta e scolastica di quel gusto dell’unità e della costruzione che il Foscolo indubbiamente ebbe tanto forte quanto la sua ripugnanza istintiva a legare e a concludere.

La punteggiatura, a cui il Chiarini non dette alcuna importanza nella sua edizione critica per quanto riguarda le lezioni del 1802 e della 1803 pisana, ha la sua importanza rivelatrice per la revisione 1803 alla luce della piú chiara volontà di musicalità larga e di legame generale piú che di risultati puntualmente rilevati e contrappuntati. Cosí nel II (già I) il verso 2 era piú precisato e meno abbondante e nel finale il punto e virgola del v. 13 staccava eccessivamente l’ultimo verso. E nel III l’abolizione dell’esclamativo al 10 e del punto e virgola al v. 12 agevola il passaggio del ritmo sonante in uno meno rilevato, mentre la virgolatura introdotta nei versi 13-14 dimostra che il Foscolo non rifuggiva dall’articolare e dal pausare dove ciò era necessario e aboliva segni troppo minuti e precisi dove ciò corrispondeva a rilievo eccessivo. Specie aboliva i numerosi punti e virgola (ad esempio, tre ne abolí nell’VIII, quattro nel IV, dove però ne sostituisce uno ad una virgola al verso 3 per una pausa energica per legare meglio nella tecnica sua piú comune un periodo lungo di due versi e un pezzo del terzo e staccarlo dal resto) o qualche inopportuna serie di punti sospensivi (V, v. 13) e qualche esclamativo di troppo (II, v. 2). Il Foscolo 1803 tende ad una maggiore sobrietà ed utilizza meglio le accentuazioni e le pause senza farsene trascinare.


1 Piú chiaramente i sonetti amorosi (come vedremo) offrono tracce di stadi precedenti e cosí il IV di cui la seconda parte dà l’impressione di una di quelle correzioni felici del secondo Ortis che leva il resto piú convenzionale e melodrammatico (ché il margine pericoloso è sulla base di un primitivo stadio foscoliano idillico-elegiaco, una drammatizzazione non avvenuta e scaduta in melodramma o una drammatizzazione perciò troppo evidente ed esteriore come è il caso del VI) in cui il ritmo del pellegrinaggio angoscioso ortisiano pare animare con una certa fatica ed un eccesso di colore cupo (rinforzato persino per quell’amor di coerenza che notammo in certe correzioni dell’Ortis) una situazione di piú blanda elegia amorosa. Se si pensa alla testimonianza del Carrer sui sei sonetti amorosi pubblicati nel 1798 e alla presenza effettiva del sonetto Quando la terra è d’ombre ricoverta, ripreso nel V, una tale ipotesi acquista prestabilità ed utilità di esemplificazione di questo lavoro foscoliano di ripresa sonettistica piú vigorosa in fase ortisiana, su di una esperienza sentimentale e poetica precedente.

2 Nella edizione pisana del 1802 («Nuovo giornale dei letterati di Pisa», tomo IV, 1802, ottobre) l’ordine degli otto sonetti pubblicati era (rispetto a quello definitivo dell’edizione milanese Agnello Nobile, 1803) il seguente: I. Non son chi fui, II. Che stai?, III. Te nutrice, IV. E tu ne’ carmi, V. Perché taccia, VI. Cosí gl’interi, VII. Meritamente, VIII. Solcata ha fronte. Per il testo critico dei sonetti si veda all’Appendice allegata al capitolo sui sonetti maggiori.

3 Ma il declamabile è legato anche ad una relazione poesia-eloquenza che, forte nel Foscolo, non manca persino nel purissimo Leopardi e che coincide con la “recitazione” sempre implicita nella poesia prima del disadorno, smagato Novecento.

4 Eco del sonetto petrarchesco La gola, il sonno e l’ oziose piume ove ricorre «qual vaghezza di lauro, qual di mirto?».

5 Cosí nel secondo volume le due virgole abolite scandivano piú attentamente: «questo, che avanza, è sol languore e pianto».

6 Fasciare in senso traslato è di origine soprattutto cinquecentesca petrarchistica (Bembo, Della Casa, testi di lettura per il giovane Foscolo).

7 Il Caraccio (op. cit., nella prima parte, p. 333) nota proprio per la soppressione di questi versi «L’unité de l’inspiration qui renonce à la mièvrerie, est parfaite».

8 Il Manacorda, che trovava il sonetto bellissimo, accentuava il risultato di rispondenza fra paesaggio e stato d’animo (op. cit., p. 27).

9 E tutto il capitolo poté essere presente al Foscolo con il suo andamento di viaggio, di aspro viaggio in un paesaggio rupestre («la via alpestre e lunga», «il folto bosco mi tarda», ecc.), anche se in un’aria bonaria che subito scioglie l’inizio piú deciso.

10 C’è un’espressione simile in una lettera del 1798 a Dionigi Strocchi (9 luglio, I, p. 67): «La Teresina...Veramente io sono in assoluta necessità di partire. Per Dio! amare; tacere; discorrere di un altro per non annoiarla; lodarla; piangere in segreto ed affettare giocondità».

11 In un autografo del 1827, pubblicato da M. Praz (Gusto neoclassico, Firenze 1940, pp. 193-194), il Foscolo trascriveva ad un ammiratore inglese «a memoria» «a portrait of mine in verse or rather in rhyme written some years since to be placed behind a picture made of me for the sake of a friend. Do not accuse me of Egotism...». Per la Arese certamente nel periodo del loro amore (1801). Le varianti di questo autografo hanno poco valore, dettate a memoria e in un periodo di malattia. La «mente astuta» è evidentemente una confusione non felice con i versi dei Sepolcri a proposito di Ulisse, «né senno astuto né favor di regi». Potrebbe essere come una accentuazione del contrasto fra “ragione e cuore” (Ulisse e Ajace), ma si esita ad attribuirle tutto il valore che potrebbe avere in tale direzione, quasi un disperato ritorno a posizioni romantiche estreme.

12 In tal senso è ancora accettabile l’interpretazione del Manacorda che parla di esigenza di origine «sensistica» (Studi foscoliani cit., p. 33).

13 Nel 1803 fu spostato dopo l’autoritratto e avvicinato ai sonetti maggiori, ma senza correzioni notevoli tranne la solita diminuzione di punteggiatura: riprova del carattere recente e della sostanziale soddisfazione dell’autore.

14 Il Russo nel suo commento reagisce giustamente al sensibilismo che vide nel sonetto solo “stilnovismo” («qui le aure, l’atmosfera è tutta classica e pagana, e l’innamorato vuole esprimere non il tremito di umiltà degli stilnovisti, ma la voluttà del penetrarsi delle aure d’ambrosia divina»). Ma qui non si tratta evidentemente di disperdere il gusto classico cosí foscoliano, ma di chiarire la sua particolare contaminazione con la suggestione “fiorentina” e di giovanile estasi che il Foscolo poté sentire a modo suo nella larga atmosfera stilnovistica.